
Dopo venti anni di attesa, la TUN (Tabella Unica Nazionale) è divenuta legge dello Stato.
Il DPR 12, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18 febbraio scorso, contiene infatti il regolamento recante la tabella di riferimento, che fornisce il valore pecuniario da attribuire a ogni punto di invalidità per le cosiddette macro-lesioni, quelle – cioè – che vanno dai dieci ai cento punti di invalidità permanente.
Attendevamo questo momento da quando il Codice delle Assicurazioni Private, all’articolo 138, ha indicato che questo fosse il criterio di valutazione da adoperare per le lesioni gravi. Per quelle fino al nono grado di invalidità, invece, la tabella di riferimento era già indicato dalla legge.
Era il 2005 e ciò vuol dire che l’applicazione delle indicazioni fornite dal CAP è rimasta parzialmente inattuata fino ad oggi e vedremo più avanti con quali conseguenze.
Il provvedimento è finalmente entrato in vigore il 5 marzo e si applica “ai sinistri e agli eventi verificatisi successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto”.
All’interno del nostro sistema giuridico, nel quale tutti i danni che coinvolgano l’integrità fisica e psichica dell’individuo assumono una rilevanza particolare, il concetto di danno alla persona è alquanto complesso. Esso rileva per tutti i danni che possono essere causati a un essere umano e la letteratura giuridica che lo riguarda è assai ampia.
Dobbiamo innanzi tutto considerare che, all’interno della macro-categoria del danno alla persona, distinguiamo due principali sotto-categorie: il danno patrimoniale e quello non patrimoniale.
Il primo comprende il danno emergente, ovvero la perdita economica inflitta al danneggiato e il lucro cessante, cioè il mancato guadagno subito dallo stesso. Il secondo, invece, comprende il danno alla salute e ai diritti inviolabili dell’uomo (si dice infatti anche danno al bene vita).
In pratica, il danno patrimoniale serve a valutare la perdita del patrimonio del danneggiato, in seguito ad un determinato evento, come un infortunio o una malattia, un incidente o un errore medico. Esso è rappresentato dal pregiudizio di natura economica che possiamo rilevare comparando il patrimonio del danneggiato prima e dopo il verificarsi del fatto dannoso.
Il danno non patrimoniale, invece, è il danno conseguente alla lesione di quegli interessi dell’individuo che non sono connotati da rilevanza economica e riguarda la vita affettiva, la salute, l’onore e il prestigio della persona.
Questo tipo di danno non rileva sulla capacità di produrre reddito e per tale ragione è assai più complesso da valutare, perché concerne tutti i pregiudizi subiti dall’integrità dell’individuo in tutti quegli aspetti definiti come dinamico-relazionali, insomma, il suo modo di essere all’interno dell’ambiente in cui vive e opera.
Il danno non patrimoniale comprende il danno fisico alla salute (sancito dall’articolo 32 della Costituzione) come pure il danno dovuto al peggioramento della qualità della vita, alla lesione del diritto alla serenità e tranquillità familiare (anche questi sanciti dagli articoli 2, 29 e 30 della nostra Carta costituzionale), alla reputazione, all’immagine, al nome e anche alla riservatezza.
Parliamo insomma dei diritti inviolabili garantiti al cittadino dalla Costituzione ed è per ciò che questa categoria di danno è tanto rilevante sul piano giuridico: il diritto all’integrità psicofisica della persona costituisce infatti un diritto primario e inviolabile.
Dalla descrizione che ne abbiamo fatta, è facilmente intuibile come il risarcimento di questa fattispecie di danno sia assai complesso da stabilire. Esso ha reso necessaria ciò che definiamo una valutazione di tipo equitativo, da parte della magistratura. La stessa dovrà infatti indicare una “compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio” che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa”, condotta “con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione” (Cassazione n. 1361/2014).
Lo scopo è “ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre” (Cassazione Sezioni Unite n. 26972/2008).
Dunque, mentre il danno patrimoniale è relativamente facile da determinare, perché è sufficiente fare i conti per calcolare la perdita patrimoniale subita dalla vittima in occasione dell’evento dannoso o come sua conseguenza, il danno non patrimoniale, come lo calcoliamo?
Come abbiamo accennato, finora la legge ha fornito criteri certi di liquidazione per questa categoria di danno, solo per le cosiddette micropermanenti, ovvero le lesioni che non superano i nove punti d’invalidità. Per quelle che invece superavano tale soglia, definite macropermanenti, valevano i criteri equitativi stabiliti dal giudice.
Ma la difficoltà a definire l’ampio numero di elementi che possono contraddistinguere il danno non patrimoniale ha determinato un forte disallineamento nelle somme da liquidare, attraverso l’intera penisola. Nel tentativo di ristorare il pregiudizio nel modo più giusto possibile, ciascun tribunale si orientava in maniera autonoma. E, oltre ai magistrati, la mancanza di certezze sulle cifre da apporre a riserva causava gravi difficoltà anche ai liquidatori e agli esperti sinistri delle compagnie di assicurazione.
Mettere a riserva un sinistro grave a persona rappresentava, insomma, un autentico esercizio funambolico, perché si doveva tener conto del luogo in cui il sinistro si era verificato e della tendenza dei giudici locali a dare importanza a questa o quella voce del danno non patrimoniale, giacché, per il danno patrimoniale, come abbiamo detto, grossi problemi non si incontravano di certo.
E rilevava anche fortemente il modo in cui i legali dell’una o dell’altra parte si comportavano nella richiesta di risarcimento e nel conteggio di quanto dovuto.
Insomma, non v’è alcun dubbio che la liquidazione dei danni gravi a persona rappresentava un problema, spesso di difficile comprensione per le compagnie straniere che si affacciavano nel nostro mercato. Non dimentichiamo, infatti, che l’apposizione di riserve credibili è fondamentale per mantenere quel margine di solvibilità che garantisce la sopravvivenza di ogni compagnia assicurativa.
I criteri di liquidazione di cui parliamo si applicano nell’ambito di rami della responsabilità civile di grande importanza nel nostro mercato, come la responsabilità per la circolazione dei veicoli e quella medica, insomma, ovunque vi sia la possibilità che si verifichi un danno alla persona di una certa gravità.
All’interno del danno non patrimoniale distinguiamo diverse voci, delle quali riporteremo di seguito gli esempi più comuni, esclusivamente per esigenze descrittive e per meglio comprendere le caratteristiche complessive di questa categoria di danno tanto complessa e particolare, che distingue il nostro sistema liquidativo. La Corte di Cassazione è infatti tornata a più riprese sull’argomento, definendo il danno patrimoniale come un unicum: “una singola e inscindibile categoria di danno”.
Una prima voce è rappresentata dal danno biologico, che è la lesione dell’integrità fisica e psichica del soggetto, accertabile a livello medico e che viene considerata risarcibile a prescindere dalla capacità di produzione di reddito del danneggiato.
Altra voce di danno riconoscibile all’interno della categoria del danno non patrimoniale è il danno morale. Esso consiste nella sofferenza subita dal soggetto a causa delle lesioni fisiche subite e comprende ansie, sofferenze psichiche, angoscia, stati di afflizione e patemi d’animo in genere.
Questa è la ragione per cui una simile categoria di danno alla persona è riconoscibile nel sistema giuridico statunitense (e in genere in tutti quelli che fanno capo al sistema della common law) sotto il nome di pain and suffering.
Con il termine di danno morale (anche detto pretium doloris) si intende risarcire il dolore (non soltanto quello fisico), lo spavento, l’emozione.
Anche questo tipo di danno non ha a che fare con la lesione del patrimonio della vittima, ma non rientra neppure nel concetto del danno biologico, per cui la dottrina si è a più riprese espressa per meglio definirlo. La Corte di Cassazione ha definito il danno morale quale “patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo)”.
Abbiamo poi il danno esistenziale, che trova la propria fonte all’articolo 612-bis del codice penale, nel quale vengono distinti due momenti della sofferenza: il dolore interiore (che rientra nel danno morale) e quella significativa alterazione della vita quotidiana, che è appunto definita quale danno esistenziale. Quest’ultimo consiste nella lesione di diritti o interessi dell’individuo, diversi dalla salute, e riguarda la rinuncia a svolgere attività che non sono economicamente remunerative ma sono però in grado di fornire alla vittima del fatto dannoso un certo piacere (sono perciò anche dette attività realizzatrici).
Possiamo considerare tali tutte quelle attività attraverso le quali l’individuo realizza la propria felicità, come ad esempio la sua capacità di suonare uno strumento per diletto o di praticare una qualsiasi attività sportiva o di svago. Questa voce di danno è spesso tradotta in inglese come loss of enjoyement of life, il che rende molto l’idea di un danno che colpisca la qualità della vita del danneggiato.
Facciamo l’esempio di una persona che perda l’uso di un braccio. Essa sarà risarcita per il danno patrimoniale che tale perdita rappresenterà per la sua capacità di produrre reddito. Ma come risarcire anche il dispiacere causato dal fatto che, a causa della perdita dell’arto, la stessa non potrà mai più suonare il violino, il che le procurava grande piacere nei momenti liberi?
Questa voce di danno è dunque pensata proprio per tenere conto di tale sconvolgimento, per quanto suonare il violino non costituisca per tale persona una fonte di reddito.
Altra voce rientrante nell’ambito del danno non patrimoniale è quella relativa alla perdita del rapporto parentale. È questo un tipo di danno che sconvolge la sfera degli affetti della vittima, colpendo l’inviolabilità dell’individuo all’interno della sua famiglia. Tale diritto è ricollegabile al disposto degli articoli 2, 29 e 30 della Costituzione ed è proprio questo aspetto che ci permette di collocare anche il danno da perdita del rapporto parentale nell’ampia categoria del danno non patrimoniale.
Secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità (ovvero, della Corte di Cassazione), questa voce di danno serve a ristorare il familiare dalla sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare per l’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare: uno sconvolgimento di vita destinato ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita.
Vi sarebbero altre voci da illustrare, come il danno tanatologico o da perdita della vita, ad esempio, ma ciò che mi premeva era dimostrare quanto complesso sia il lavoro di chi deve riconoscere – all’interno di tutte queste categorie – le varie tipologie di pregiudizio che abbiano affetto la vittima e, soprattutto, di valutare, ovvero monetizzare questo tipo di danno.
Questo problema impatta per prima cosa la magistratura e gli studi legali che sono chiamati a conteggiare l’ammontare dei risarcimenti da pretendere, ma si riverbera in modo drammatico quando consideriamo il lavoro dei liquidatori delle compagnie di assicurazione, che hanno l’obbligo di apporre riserve congrue ai danni che trattano, pena la perdita di credibilità della compagnia per la quale lavorano e il pericolo conseguente che la stessa non possa più operare, in quanto non più solvibile.
Per cercare di sbrogliare il nodo rappresentato dalla necessità di armonizzare i diversi sistemi di liquidazione utilizzati dai vari tribunali in tutta la penisola, si è messo al lavoro l’Osservatorio Giuridico di Milano. È questo un gruppo di magistrati, giuristi ed esperti nella liquidazione che, con un lungo e certosino lavoro di comparazione di migliaia di sentenze, ha provato a sviluppare delle tabelle liquidative (o barèmes) che consentissero agli addetti ai lavori di conteggiare le varie categorie del danno non patrimoniale, in modo che il risultato fosse equilibrato lungo tutta la penisola. Perché, insomma, non si verificassero più discrasie per il fatto che il medesimo tipo di pregiudizio fosse valutato diversamente da un tribunale all’altro.
Il lavoro svolto dall’Osservatorio milanese ha però incontrato diverse critiche e, mentre alcune corti si sono presto allineate ai suoi metodi, altre hanno sviluppato proprie e diverse tabelle, oppure hanno semplicemente rifiutato il concetto stesso di tabella liquidativa, in quanto limitativo della libertà di giudizio del giudice.
Nel frattempo, però, alcune disposizioni di legge (come la cosiddetta legge Gelli, ad esempio) hanno fatto riferimento alle tabelle di Milano, in particolare dopo che il CAP ha chiaramente sdoganato questo sistema. Ciò che mancava, però, era l’approvazione della tabella per le macrolesioni, che ha visto la luce solo ora.
Al di là dei vari commenti o delle critiche che ancora riceverà, la TUN rappresenta per molti addetti ai lavori un vero e proprio atto di civiltà giuridica. In ogni parte del Paese, infatti, il giudice sarà tenuto ad applicare la tabella di legge, abbandonando i “contrastanti campanilismi risarcitori che hanno imperato dal 2005 ad oggi” (Stefano Argine). Obbiettivo: garantire uniformità e certezza nella liquidazione dei danni e favorire una rapida definizione delle richieste risarcitorie, favorendo la sostenibilità dei costi sul piano assicurativo, soprattutto nei settori soggetti a più alta frequenza di sinistro con danni gravi alla persona, come la RC Auto e la RC Medica.
Manca ancora la tabella, anch’essa prevista dall’articolo 138 del CAP e riferita ai barèmes medico legali per la valutazione delle menomazioni all’integrità psicofisica grave, ma possiamo finalmente affermare che il maggior lavoro è fatto.
Il DPR 12, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18 febbraio scorso, contiene infatti il regolamento recante la tabella di riferimento, che fornisce il valore pecuniario da attribuire a ogni punto di invalidità per le cosiddette macro-lesioni, quelle – cioè – che vanno dai dieci ai cento punti di invalidità permanente.
Attendevamo questo momento da quando il Codice delle Assicurazioni Private, all’articolo 138, ha indicato che questo fosse il criterio di valutazione da adoperare per le lesioni gravi. Per quelle fino al nono grado di invalidità, invece, la tabella di riferimento era già indicato dalla legge.
Era il 2005 e ciò vuol dire che l’applicazione delle indicazioni fornite dal CAP è rimasta parzialmente inattuata fino ad oggi e vedremo più avanti con quali conseguenze.
Il provvedimento è finalmente entrato in vigore il 5 marzo e si applica “ai sinistri e agli eventi verificatisi successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto”.
Il danno a persona in Italia
All’interno del nostro sistema giuridico, nel quale tutti i danni che coinvolgano l’integrità fisica e psichica dell’individuo assumono una rilevanza particolare, il concetto di danno alla persona è alquanto complesso. Esso rileva per tutti i danni che possono essere causati a un essere umano e la letteratura giuridica che lo riguarda è assai ampia.
Dobbiamo innanzi tutto considerare che, all’interno della macro-categoria del danno alla persona, distinguiamo due principali sotto-categorie: il danno patrimoniale e quello non patrimoniale.
Il primo comprende il danno emergente, ovvero la perdita economica inflitta al danneggiato e il lucro cessante, cioè il mancato guadagno subito dallo stesso. Il secondo, invece, comprende il danno alla salute e ai diritti inviolabili dell’uomo (si dice infatti anche danno al bene vita).
In pratica, il danno patrimoniale serve a valutare la perdita del patrimonio del danneggiato, in seguito ad un determinato evento, come un infortunio o una malattia, un incidente o un errore medico. Esso è rappresentato dal pregiudizio di natura economica che possiamo rilevare comparando il patrimonio del danneggiato prima e dopo il verificarsi del fatto dannoso.
Il danno non patrimoniale, invece, è il danno conseguente alla lesione di quegli interessi dell’individuo che non sono connotati da rilevanza economica e riguarda la vita affettiva, la salute, l’onore e il prestigio della persona.
Questo tipo di danno non rileva sulla capacità di produrre reddito e per tale ragione è assai più complesso da valutare, perché concerne tutti i pregiudizi subiti dall’integrità dell’individuo in tutti quegli aspetti definiti come dinamico-relazionali, insomma, il suo modo di essere all’interno dell’ambiente in cui vive e opera.
Il danno non patrimoniale comprende il danno fisico alla salute (sancito dall’articolo 32 della Costituzione) come pure il danno dovuto al peggioramento della qualità della vita, alla lesione del diritto alla serenità e tranquillità familiare (anche questi sanciti dagli articoli 2, 29 e 30 della nostra Carta costituzionale), alla reputazione, all’immagine, al nome e anche alla riservatezza.
Parliamo insomma dei diritti inviolabili garantiti al cittadino dalla Costituzione ed è per ciò che questa categoria di danno è tanto rilevante sul piano giuridico: il diritto all’integrità psicofisica della persona costituisce infatti un diritto primario e inviolabile.
La valutazione del danno non patrimoniale
Dalla descrizione che ne abbiamo fatta, è facilmente intuibile come il risarcimento di questa fattispecie di danno sia assai complesso da stabilire. Esso ha reso necessaria ciò che definiamo una valutazione di tipo equitativo, da parte della magistratura. La stessa dovrà infatti indicare una “compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio” che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa”, condotta “con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione” (Cassazione n. 1361/2014).
Lo scopo è “ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre” (Cassazione Sezioni Unite n. 26972/2008).
Dunque, mentre il danno patrimoniale è relativamente facile da determinare, perché è sufficiente fare i conti per calcolare la perdita patrimoniale subita dalla vittima in occasione dell’evento dannoso o come sua conseguenza, il danno non patrimoniale, come lo calcoliamo?
Come abbiamo accennato, finora la legge ha fornito criteri certi di liquidazione per questa categoria di danno, solo per le cosiddette micropermanenti, ovvero le lesioni che non superano i nove punti d’invalidità. Per quelle che invece superavano tale soglia, definite macropermanenti, valevano i criteri equitativi stabiliti dal giudice.
Ma la difficoltà a definire l’ampio numero di elementi che possono contraddistinguere il danno non patrimoniale ha determinato un forte disallineamento nelle somme da liquidare, attraverso l’intera penisola. Nel tentativo di ristorare il pregiudizio nel modo più giusto possibile, ciascun tribunale si orientava in maniera autonoma. E, oltre ai magistrati, la mancanza di certezze sulle cifre da apporre a riserva causava gravi difficoltà anche ai liquidatori e agli esperti sinistri delle compagnie di assicurazione.
Mettere a riserva un sinistro grave a persona rappresentava, insomma, un autentico esercizio funambolico, perché si doveva tener conto del luogo in cui il sinistro si era verificato e della tendenza dei giudici locali a dare importanza a questa o quella voce del danno non patrimoniale, giacché, per il danno patrimoniale, come abbiamo detto, grossi problemi non si incontravano di certo.
E rilevava anche fortemente il modo in cui i legali dell’una o dell’altra parte si comportavano nella richiesta di risarcimento e nel conteggio di quanto dovuto.
Insomma, non v’è alcun dubbio che la liquidazione dei danni gravi a persona rappresentava un problema, spesso di difficile comprensione per le compagnie straniere che si affacciavano nel nostro mercato. Non dimentichiamo, infatti, che l’apposizione di riserve credibili è fondamentale per mantenere quel margine di solvibilità che garantisce la sopravvivenza di ogni compagnia assicurativa.
I criteri di liquidazione di cui parliamo si applicano nell’ambito di rami della responsabilità civile di grande importanza nel nostro mercato, come la responsabilità per la circolazione dei veicoli e quella medica, insomma, ovunque vi sia la possibilità che si verifichi un danno alla persona di una certa gravità.
Le categorie che distinguono il danno non patrimoniale
All’interno del danno non patrimoniale distinguiamo diverse voci, delle quali riporteremo di seguito gli esempi più comuni, esclusivamente per esigenze descrittive e per meglio comprendere le caratteristiche complessive di questa categoria di danno tanto complessa e particolare, che distingue il nostro sistema liquidativo. La Corte di Cassazione è infatti tornata a più riprese sull’argomento, definendo il danno patrimoniale come un unicum: “una singola e inscindibile categoria di danno”.
Una prima voce è rappresentata dal danno biologico, che è la lesione dell’integrità fisica e psichica del soggetto, accertabile a livello medico e che viene considerata risarcibile a prescindere dalla capacità di produzione di reddito del danneggiato.
Altra voce di danno riconoscibile all’interno della categoria del danno non patrimoniale è il danno morale. Esso consiste nella sofferenza subita dal soggetto a causa delle lesioni fisiche subite e comprende ansie, sofferenze psichiche, angoscia, stati di afflizione e patemi d’animo in genere.
Questa è la ragione per cui una simile categoria di danno alla persona è riconoscibile nel sistema giuridico statunitense (e in genere in tutti quelli che fanno capo al sistema della common law) sotto il nome di pain and suffering.
Con il termine di danno morale (anche detto pretium doloris) si intende risarcire il dolore (non soltanto quello fisico), lo spavento, l’emozione.
Anche questo tipo di danno non ha a che fare con la lesione del patrimonio della vittima, ma non rientra neppure nel concetto del danno biologico, per cui la dottrina si è a più riprese espressa per meglio definirlo. La Corte di Cassazione ha definito il danno morale quale “patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo)”.
Abbiamo poi il danno esistenziale, che trova la propria fonte all’articolo 612-bis del codice penale, nel quale vengono distinti due momenti della sofferenza: il dolore interiore (che rientra nel danno morale) e quella significativa alterazione della vita quotidiana, che è appunto definita quale danno esistenziale. Quest’ultimo consiste nella lesione di diritti o interessi dell’individuo, diversi dalla salute, e riguarda la rinuncia a svolgere attività che non sono economicamente remunerative ma sono però in grado di fornire alla vittima del fatto dannoso un certo piacere (sono perciò anche dette attività realizzatrici).
Possiamo considerare tali tutte quelle attività attraverso le quali l’individuo realizza la propria felicità, come ad esempio la sua capacità di suonare uno strumento per diletto o di praticare una qualsiasi attività sportiva o di svago. Questa voce di danno è spesso tradotta in inglese come loss of enjoyement of life, il che rende molto l’idea di un danno che colpisca la qualità della vita del danneggiato.
Facciamo l’esempio di una persona che perda l’uso di un braccio. Essa sarà risarcita per il danno patrimoniale che tale perdita rappresenterà per la sua capacità di produrre reddito. Ma come risarcire anche il dispiacere causato dal fatto che, a causa della perdita dell’arto, la stessa non potrà mai più suonare il violino, il che le procurava grande piacere nei momenti liberi?
Questa voce di danno è dunque pensata proprio per tenere conto di tale sconvolgimento, per quanto suonare il violino non costituisca per tale persona una fonte di reddito.
Altra voce rientrante nell’ambito del danno non patrimoniale è quella relativa alla perdita del rapporto parentale. È questo un tipo di danno che sconvolge la sfera degli affetti della vittima, colpendo l’inviolabilità dell’individuo all’interno della sua famiglia. Tale diritto è ricollegabile al disposto degli articoli 2, 29 e 30 della Costituzione ed è proprio questo aspetto che ci permette di collocare anche il danno da perdita del rapporto parentale nell’ampia categoria del danno non patrimoniale.
Secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità (ovvero, della Corte di Cassazione), questa voce di danno serve a ristorare il familiare dalla sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare per l’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare: uno sconvolgimento di vita destinato ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita.
Vi sarebbero altre voci da illustrare, come il danno tanatologico o da perdita della vita, ad esempio, ma ciò che mi premeva era dimostrare quanto complesso sia il lavoro di chi deve riconoscere – all’interno di tutte queste categorie – le varie tipologie di pregiudizio che abbiano affetto la vittima e, soprattutto, di valutare, ovvero monetizzare questo tipo di danno.
Questo problema impatta per prima cosa la magistratura e gli studi legali che sono chiamati a conteggiare l’ammontare dei risarcimenti da pretendere, ma si riverbera in modo drammatico quando consideriamo il lavoro dei liquidatori delle compagnie di assicurazione, che hanno l’obbligo di apporre riserve congrue ai danni che trattano, pena la perdita di credibilità della compagnia per la quale lavorano e il pericolo conseguente che la stessa non possa più operare, in quanto non più solvibile.
Il nodo delle tabelle liquidative
Per cercare di sbrogliare il nodo rappresentato dalla necessità di armonizzare i diversi sistemi di liquidazione utilizzati dai vari tribunali in tutta la penisola, si è messo al lavoro l’Osservatorio Giuridico di Milano. È questo un gruppo di magistrati, giuristi ed esperti nella liquidazione che, con un lungo e certosino lavoro di comparazione di migliaia di sentenze, ha provato a sviluppare delle tabelle liquidative (o barèmes) che consentissero agli addetti ai lavori di conteggiare le varie categorie del danno non patrimoniale, in modo che il risultato fosse equilibrato lungo tutta la penisola. Perché, insomma, non si verificassero più discrasie per il fatto che il medesimo tipo di pregiudizio fosse valutato diversamente da un tribunale all’altro.
Il lavoro svolto dall’Osservatorio milanese ha però incontrato diverse critiche e, mentre alcune corti si sono presto allineate ai suoi metodi, altre hanno sviluppato proprie e diverse tabelle, oppure hanno semplicemente rifiutato il concetto stesso di tabella liquidativa, in quanto limitativo della libertà di giudizio del giudice.
Nel frattempo, però, alcune disposizioni di legge (come la cosiddetta legge Gelli, ad esempio) hanno fatto riferimento alle tabelle di Milano, in particolare dopo che il CAP ha chiaramente sdoganato questo sistema. Ciò che mancava, però, era l’approvazione della tabella per le macrolesioni, che ha visto la luce solo ora.
Al di là dei vari commenti o delle critiche che ancora riceverà, la TUN rappresenta per molti addetti ai lavori un vero e proprio atto di civiltà giuridica. In ogni parte del Paese, infatti, il giudice sarà tenuto ad applicare la tabella di legge, abbandonando i “contrastanti campanilismi risarcitori che hanno imperato dal 2005 ad oggi” (Stefano Argine). Obbiettivo: garantire uniformità e certezza nella liquidazione dei danni e favorire una rapida definizione delle richieste risarcitorie, favorendo la sostenibilità dei costi sul piano assicurativo, soprattutto nei settori soggetti a più alta frequenza di sinistro con danni gravi alla persona, come la RC Auto e la RC Medica.
Manca ancora la tabella, anch’essa prevista dall’articolo 138 del CAP e riferita ai barèmes medico legali per la valutazione delle menomazioni all’integrità psicofisica grave, ma possiamo finalmente affermare che il maggior lavoro è fatto.